Fredo Valla nel nuovo libro di Paolo Ferrari
Giugno 16, 2015Una conversazione con Fredo Valla in Lou Dalfin, volume edito da Fusta Editore
I Lou Dalfin sono il gruppo più rappresentativo della musica e della cultura delle valli occitane subalpine, nonché un nome di punta del rock indipendente nazionale già vincitore della Targa Tenco. La loro è musica ribelle, che con più di 1.300 concerti, attraverso 11 album, negli incontri e nelle lezioni impartite ogni anno a centinaia di allievi ha conquistato i festival rock e folk di tutta Europa, i principali club italiani, le piazze dei paesi, i centri sociali, i network e il mondo del cinema. Guida la band Sergio Berardo, interlocutore privilegiato per narrare una storia di confine e di confini: il margine tra montagna e pianura, lo spartiacque tra Italia e Francia, la dialettica tra strumenti e strutture della tradizione e vissuto quotidiano sostanzialmente rock’n’roll, l’occitanismo e la politica ufficiale.
Una rotolante biografia romanzata punteggiata da fatti, luoghi, personaggi ed emozioni in grado di informare, coinvolgere, stimolare e far riflettere non solo la galassia occitana da cui Lou Dalfin provengono, ma tutti coloro che abbiano interesse per la musica ribelle, le minoranze culturali, lo sviluppo sostenibile, il viaggio, la montagna, il circuito alternativo, la canzone d’autore, l’identità concepita come base di partenza per il dialogo con l’altro. Tutto accompagnato dal primo cd antologico nella storia de Lou Dalfin e da un ricco apparato fotografico.
PAOLO FERRARI
È nato a Cuneo nel 1959 ed è cresciuto a Torino. Scrive per La Stampa, Rumore e Il Manifesto. Ha pubblicato i libri “Anomalia Subsonica” e “Combat Folk – L’Italia ai tempi dei Modena City Ramblers”. È stato autore e conduttore radiotelevisivo, a Rai Radio Due di “Suoni e Ultrasuoni”, “Stereonotte” e “Boogie Nights” e a Rai Sat di “Rock The Movie” e “Satisfaction”. È stato a lungo tra le colonne di Radio Flash e Radio Torino Popolare. È co-autore di “Izz Trù”, film sul Traffic Festival del 2007. Suona dal 1983 nei club italiani sia come dj residente che come ospite. È stato dj di tournée con Giuliano Palma & The BlueBeaters e fondatore della Torino Posse. È a stretto contatto con Lou Dalfin da un quarto di secolo.
Un incontro con Fredo Valla
Regista di documentari, giornalista, contadino, sceneggiatore con Giorgio Diritti del film “Il vento fa il suo giro”. Soprattutto, militante occitano fin da ragazzino, quando a scuotere il mondo era un altro vento, quello della contestazione targata 1968, e il nazionalismo d’Oc veniva a confronto, a volte pure allo scontro, con la penetrazione del marxismo anche nelle valli del cuneese.
Alla ventiduesima edizione della Festa de Lou Dalfin, allo spazio Bertello di Borgo San Dalmazzo, c’è anche lui. Fredo Valla. Conosce Berardo e il gruppo fin dai loro primi passi nella galassia occitana, ma soltanto da qualche tempo a questa parte si definisce, con soddisfazione, amico di Sergio. Tra gli stand di questa fiera cosmopolita, in cui l’area della pizzica in arrivo dal Salento è fianco a fianco con il banchetto del Partit Occitan, nato in Francia e pronto per diventare operativo anche sul versante italiano, Valla riflette sul suo percorso, sul valore dell’esperienza Lou Dalfin e sulla natura stessa del nazionalismo.
«Sono nato e cresciuto a Sampeyre, in Val Varaita, ma dal 1984 vivo a Ostana, in Valle Po. Sono cresciuto in una famiglia in cui si parlava occitano, che dunque è la mia prima lingua, quella naturale. Il mio impegno nell’occitanismo è iniziato nella seconda metà degli anni Sessanta; questo significa che noi il Sessantotto lo abbiamo fatto da occitani. È come se non lo avessimo vissuto in Italia, in un certo senso. Al punto che le vicende della Penisola ci sembravano affari di politica estera, da guardare in qualità di spettatori più che di attori. Sentivamo più vicina la parte di Occitania che stava al di là delle Alpi. Per quanto concerne il mio impegno personale, Sono stato co-fondatore del giornale “Lou Soulestrelh” e in seguito del “Novel Temp”. Ho aderito a un po’ tutti i gruppi nella convinzione, ahimè sempre cassata, che il frazionismo non giovasse, come non ha giovato. Sono stato nel MAO come autonomista e nazionalista in formazione, in seguito ho partecipato all’UDAVO che era autonomista, socialisteggiante ma non nazionalista, pensando che si potesse fare un pezzo di strada assieme fino all’autonomia, dopo di che ci saremmo scannati fra autonomisti e nazionalisti. Se ben ricordo sono stato iscritto anche al PNO di Fontan e all’IEO, Istituto di Studi Occitani ai tempi dei grandi maestri Robert Lafont, Pierre Bec, i due Rouquette e altri. Tra le mie prime esperienze ci fu la partecipazione alle registrazioni dei suonatori popolari con Jan Peire de Bousquier; in generale, il mio approccio con la musica era naturale, istintivo, dal momento che vivendo a Sampeyre faceva parte della mia vita di tutti i giorni, soprattutto quella delle danze. Il clou era la Bahìo, la festa per la cacciata dei Saraceni che si celebra ogni cinque anni, ma la frequentazione dei musicisti popolari era pressoché quotidiana; parlo della generazione che aveva 60 anni quando io ero ventenne. Gente come Joan Bernard, ma anche come mio padre, che è stato l’ultimo suonatore di violino della Valle Varaita discendente non da una scuola di musica ma da una tradizione di autodidatti, in particolare allievo di Jusep da’Rous. Quello che avvenne di nuovo con il ’68 fu la presa di coscienza del fatto che questa nostra cultura era importante; non si poteva considerare un retaggio del passato da montanari, né un piemontese di serie B. Era una lingua che aveva la sue radici nella poesia trobadorica. Questa scoperta ci ha aiutati ad aprirci al mondo, a guardare fuori, lontano. Qualcuno ha vissuto e vive l’occitanismo come chiusura, per noi è stato l’esatto contrario, un momento di apertura. Insieme alla lingua, l’elemento identitario principale era la musica. Che andava avanti, perché dopo l’era dei grandi suonatori, dei Joan Bernard e dei Jusep da’Rous di cui parlavo prima, sono arrivati i gruppi. Anche loro impegnati sul fronte della musica tradizionale».
È il flusso in cui irrompe Sergio Berardo, portando con sé al tempo stesso una sensazione di continuità ed evidenti elementi di rottura.
«Si è capito subito che lui era la vera novità, fin dai primi gruppi con cui cominciò a sperimentare prima ancora di mettere a fuoco il progetto Lou Dalfin. Era una novità, paradossalmente, perché cercava di esprimere una musica occitana realmente popolare, rivolgendosi però a un pubblico nuovo; non soltanto agli anziani, agli occitanisti militanti e fedeli alla linea come me e qualche altro. Ha allargato gli orizzonti. Confesso che all’inizio vidi questa sua operazione con un certo disincanto, non credevo che sarebbe arrivato fin dove invece si trova adesso. Per capire questa mia scarsa fiducia occorre tenere anche conto del contesto: erano ancora vivi i suonatori tradizionali, e l’innovazione verso cui spingeva Sergio ci sembrava un po’ sacrilega. Non c’era alcuna prevenzione, viceversa, circa il fatto che fosse arrivato a parlare occitano in un secondo tempo, dal momento che, a differenza di altri musicisti, si era appropriato subito della lingua. Quello della lingua non era un dettaglio, per noi autonomisti era una discriminante: solo se parlavi occitano potevi considerarti un militante. Gli altri erano snobbati, considerati tutt’al più dei simpatizzanti o degli appassionati di Occitania alla stregua di quelli del gioco delle bocce o della pesca alla mosca. Nonostante l’aderenza linguistica, e benché all’inizio della sua attività pubblica di musicista fosse molto più vicino alla tradizione di quanto sarebbe accaduto in seguito, Berardo ci lasciava perplessi. Dalla sua aveva comunque una straordinaria vitalità, una profonda convinzione della giusta causa su cui si fondava il pensiero occitanista, da cui derivava una forte coscienza occitana; nonché quella straordinaria capacità di coinvolgere gente nuova in un momento in cui la nostra musica, ancorata com’era agli schemi tradizionali, cominciava a odorare di vecchio, di stantio e andava perdendo appeal».
È una carica innovativa che preleva, senza tradire le proprie radici, da altre culture che fioriscono anche fuori dalle valli di provenienza.
«Sergio ha subito guardato innanzitutto al mondo occitano inteso in senso più lato e ha avuto il coraggio di prendere quel che gli serviva dove c’era, a partire dall’intreccio tra acustico e soluzioni elettriche mutuate dal rock. Poi era schietto, motivato, su questo non c’erano dubbi; un suo modo di essere che mi colpì fin dai primi concerti era il fatto che chiudesse gli spettacoli urlando al microfono Viva la Nacion Occitana!, se non addirittura Viva François Fontan, Viva la Nacion Occitana!».
Già, François Fontan. L’esule a Frassino, nel cortile della cui casa il giovane Sergio, appena diciottenne, aveva visto per la prima volta gli strumenti degli accademici freak di Tolosa.
«Fontan era il suo primo riferimento politico occitano, ed era l’intellettuale fondante anche per una parte di noi. Lui ci insegnò a praticare l’occitanismo come strumento per comprendere il mondo, non come arma per difendere l’orticello, la borgata e il campanile o per studiare le piccole differenze tra le sottovarietà linguistiche e culturali. Ci aveva dato talmente tanta consapevolezza da trasformarci in una sorta di élite aristocratica: guardavamo gli altri dall’alto verso il basso perché François ci aveva insegnato a capire tutti i fenomeni e i conflitti del pianeta. Attraverso lui riuscivamo a interpretare la colonizzazione, a individuare il meccanismo per cui un popolo colonizzato può a sua volta colonizzarne un altro, come gli arabi algerini sotto il tallone dei francesi colonizzarono a loro volta i berberi. Questo percorso, per la mia generazione, interagiva giocoforza con il marxismo del Sessantotto, portando a risultati molto interessanti. Ciononostante, il povero Fontan era malvisto dalla componente marxista, che arrivò a definirlo persino fascista per aver lavorato sul tema del nazionalismo. Non c’è da stupirsi, peraltro: in Italia si confonde spesso il nazionalismo con l’imperialismo, e così avviene per la verità anche in Francia. Un certo infantilismo della nostra sinistra la portava ad appoggiare il Fronte Nazionale di Liberazione Algerino, o a difendere il nazionalismo antistatunitense di Fidel Castro e dei vietcong, senza riflettere sulla natura e sui contenuti di quello occitano, di quello sardo, di quello catalano o basco, bollati a priori come fenomeni reazionari. Questo accadde con Fontan, catalogato a sinistra come fascista e a destra come comunista. La nostra, parlo sempre di me e dei miei amici, era in sostanza un’analisi marxista, a cui aggiungevamo gli elementi del nazionalismo umanista di François, in particolare l’individuazione della contraddizione tra i popoli e le nazioni che porta sempre una di queste ultime al ruolo di colonizzatrice delle altre, con tutto quel che ne deriva in campo economico, culturale, linguistico e via dicendo. Lui si spingeva oltre, aggiungendo la contraddizione generazionale e sessuale degna della sua provenienza dalla scuola di Wilhelm Reich, nonché della sua natura di omosessuale dichiarato e accettato in quanto tale dalla comunità di Frassino, come emerge dalle testimonianze che con Diego Anghilante abbiamo inserito nel film E i a lo solelh – François Fontan e la descuberta de l ’Occitania, del 1999. Questa tolleranza non era concessa a tutti, a lui però sì; non basta dunque perché le nostre valli possano essere considerate illuminate sull’argomento più di altri posti».
Dopo la prima fase di lavoro, culminata nella creazione de Lou Dalfin e nella pubblicazione dei primi due album assai vicini alla tradizione tout court, la spallata decisiva arriva nel 1992 con “W Jan d’l’Eiretto”.
«Con quel disco capimmo che la nostra mancanza di fiducia non aveva motivo di essere, che restare nel solco della tradizione portandola avanti e coinvolgendo gente nuova era possibile. Ci trovammo la continuità con i musicisti di paese che ascoltavamo da ragazzi e al tempo stesso un linguaggio nuovo, capace di parlare ai giovani delle valli, che si erano stufati della musica tradizionale in senso stretto, ma che non si riconoscevano neppure nelle discoteche della pianura. Non solo, il nuovo orizzonte aperto da Lou Dalfin era destinato ad allargarsi a livello internazionale e ad attecchire nelle grandi città. Oggi quando sono in giro per lavoro e il discorso cade sulla musica occitana tutti mi citano in prima battuta il gruppo, magari dicendo Lou Dàlfin. Io li correggo in Lou Dalfìn, ma il succo non cambia: è una band conosciuta da chi segue la musica alternativa, legge Il Manifesto, milita nel movimento No Tav, guarda la società da un punto di vista non convenzionale. Per questa diffusione un’arma vincente risiede nelle doti di grande comunicatore di Berardo, nel suo eloquio ricco di metafore. È un affabulatore nato, inoltre usa la ghironda in modo impetuoso, d’autore. Il resto lo ha fatto una crescita artistica esponenziale, con l’approdo alla danza-canzone dell’ultimo periodo che gli è valsa il conferimento della Targa Tenco; per me è stata una sorta di chiusura del cerchio che si aprì quando da ragazzo mi immersi nella generazione dei grandi cantautori, da Fabrizio De Andrè fino a Rino Gaetano. Per quanto riguarda invece il mio rapporto attuale con l’occitanismo, guardo all’idea nazionalista con fedeltà ma anche con disincanto, data l’assenza della politica sul fronte occitano, sia da questa che dall’altra parte delle Alpi. Assenza che peraltro non è soltanto un problema occitano».
Paolo Ferrari
LOU DALFIN, Vita e miracoli dei contrabbandieri di musica occitana
232 pagg. foto a colori e bianco nero
Fusta Editore
25 euro (libro + CD)
www.fustaeditore.it